Il nuovo dirompente spettacolo di Gerardo Sinatore. Reale e senza artifizi
Certi spettacoli te li dimentichi subito. Li cancelli mentre li vedi. Altri ti ossessionano per giorni o per settimane. Anche senza volerlo. Vorresti forse rimuoverli, qualcosa non ti funzionava, e invece ritornano, con le loro immagini, si chiariscono a poco a poco, si inombrano di nuovo, dall’inabissamento risaltano dentro di te. Così è stato per “Alfabeti di specchi” di Gerardo Sinatore, andato in scena al Teatro Auditorium “Sant’Alfonso Maria de’ Liguori” di Pagani.
Uno spettacolo interessante, prima che bello, perché la sua qualità risiede soprattutto, più che nel risultato finale, nel modo in cui è posto in luce il procedimento costruito praticamente “a vista”, quel suo modo di comunicare direttamente col pubblico, rinunciando agli artifici della rappresentazione, quella sua capacità di attingere senza fronzoli a una tracimante urgenza di trasmettere significati. Poi, certo, è anche un bello spettacolo, di una sua bellezza asciutta, essenziale, verrebbe da dire per certi aspetti necessaria, fuori da astratti canoni estetici.
La forza e la pregnanza sui vari livelli (musicale, visivo, orale) derivano dalla scelta del regista di non puntare su una struttura compiuta e indirizzata verso un esito stabilito. Il testo si compone via via sugli apporti, sulle relazioni reciproche e anche, perché no, sulle diverse matrici espressive ed esperienze professionali di Carmine Torchia, Filomena D’Aniello, Franco Pinto, Vincenzo Romano, Laura Paolillo, Francesca Cercola, Amalia Pagliuca e Alfonso Calandra. Una combinazione che garantisce la freschezza e in qualche modo l’autenticità, la particolare intensità emotiva dell’operazione.
Sinatore, che in questo genere di interventi è un autentico maestro, ha adottato un metodo ormai codificato che mescola musica, sensazioni, suggestioni da riportare in scena pari pari, senza tentare di dare loro una rigida forma narrativa. Lo spettatore assiste al confluire magmatico e irrisolto di disparate tematiche non tanto esplorate con rigore quanto fatte letteralmente esplodere nei loro tratti più affascinanti: la ricerca dell’identità, l’amore, lo scorrere del tempo, la visionarietà e la vita, la tecnologia e l’interiorità.
Da vicino recuperiamo la distanza necessaria a far agire le immagini dentro di noi, dove non è l’apparenza che conta ma quello che rimane dopo aver sentito qualcosa. Si respira una tenue malinconica magia in questo spettacolo, vera e propria metafora del mondo simile a un sistema solare che è il teatro come arena dei sentimenti, delle emozioni, delle risorse, delle metamorfosi, luogo di apparizione ed evocazione. Ricordandoci che non c’è più un centro, ma solo un vagare, un muoversi, un viaggiare, tra anima, mente e cuore.