Aldo Di Vito racconta la sua amicizia con l’anarchica Emilia Buonacosa, nella sua casa un cenacolo anche con Pietro Colella
di Aldo Di Vito
Quella di Emilia Buonacosa è una storia degna di “Com’eravamo”, la rubrica tanto cara a Pierino Califano, ma visto ch’egli è affaccendato da più futili faccenduole di cronaca spicciola, la racconto qui. La conobbi ch’eravamo sul finire degli anni ’60, quando anch’ella era più o meno sugli anni 60, alta, vigorosa, energica, vivace, portava sempre in testa un turbante, sfilava a passo svelto lungo il corso, dal Comune dove lavorava, a casa sua giù all’Ammarrata, alias Via Libroia.
La chiamavano “la marxista”, un appellativo per molti astruso. Portava il turbante perché da giovanissima, lavorando alle Cotoniere, le si era impigliata la chioma in una macchina che le aveva fatto lo scalpo. Aveva contribuito a fondare la Camera del Lavoro di Nocera, una delle prime d’Italia, poi aveva sposato un giornalista anarchico con il quale si era trasferita in Francia e con lui accorsa nel ’36 in Spagna a partecipare a quella sanguinosa guerra civile, durante la quale fu cura costante dei comunisti staliniani di sterminare e azzerare l’anarchismo baakuniano. Perciò ella non era comunista. Sapeva bene che avevo militato per anni nel Movimento Sociale Italiano, che per molti significava essere fascisti, anche se allora, primi anni ’70 ero socialdemocratico, ma aperta, generosa, liberale com’era, non le fece ombra a onorarmi della sua amicizia.
Così accadde che pretese che ogni mercoledì puntualmente, insieme con mia moglie, andassimo a pranzo da lei, ove mi iniziò alle “delizie” della cucina francese con mouton, escargot e fomage de chevre, agli usi e alla lingua francese. A quei pranzi invitava anche Pietro Colella, il senatore democristiano cattolico praticante che serviva messa vestito da diacono, uomo onesto, umile e probo, e vi si trovava spesso un suo amico parigino doc, Dede’, impiegato alla Total, anarchico internazionalista, che parlava italiano, tedesco e spagnolo e che ogni anno si recava a Baireuth in Germania e a Ravello per assistere ai concerti Wagneriani.
Lascio immaginare le discussioni politiche e culturali che avvenivano a quella tavola, durante le quali appresi che si può essere fermissimi assertori delle proprie idee e contemporaneamente tolleranti e rispettosi delle idee altrui. Da allora Pietro Colella ogni anno il 10 gennaio a Sant’Aldo, puntualmente, mi faceva recapitare a casa una torta, pur sapendo che non lo avevo e non lo avrei mai votato. Poi Emilia morì, povera e serena, sul suo letto di una piazza e mezza, tenendomi la mano. Era il 12 dicembre 1976.