La beatificazione della nocerina Filomena Giovannina Genovese e il miracolo del bambino salvato dalle acque
di Marisa Croce
Appena si entra nella bella chiesa di Santa Maria degli Angeli al confine tra Nocera Inferiore e Nocera Superiore, si avverte una profonda sensazione di calma. Camminando tra quelle antiche mura troviamo la tomba della serva di Dio Filomena Giovannina Genovese.
Come spesso succede, sappiamo poco di questa nocerina. Vediamo di approfondire la sua conoscenza. Nacque a Nocera Inferiore il 28 ottobre 1835 da Paolo Genovese e Maria Petrosino, ed era l’ottava di undici figli. I suoi genitori erano persone benestanti e molto religiose e la battezzarono subito nella parrocchia di San Matteo Apostolo, a cui la famiglia Genovese apparteneva. Fin dalla più tenera età fu chiaro che era nato un bellissimo fiore di santità. Sembra infatti che la prima parola che pronunciò non fu “mamma” ma ” Ave Maria” e che fin da piccola, con l’aiuto delle sue zie, amava dedicarsi al catechismo.
Il miracolo
Aveva appena sei anni quando, avendo sentito gridare un bambino più o meno della sua età, che stava annegando nella piena delle acque che si era formata a causa delle forti piogge di quei giorni, senza pensarci due volte, corse verso il luogo della tragedia, e cioè il trivio della Croce di San Matteo, si lanciò contro la corrente e non si arrese fino a quando non salvò il bimbo che si chiamava Giulio Esposito. Non contenta, lo portò a casa, lo asciugò, lo fece riscaldare, gli diede da mangiare e lo coricò per farlo riposare prima di riportarlo ai genitori.
I voti
Non potendo consacrarsi a Dio in un ordine religioso per varie ragioni, a 16 anni, quando altre ragazze pensano al primo amore, nel giorno di Pentecoste del 1851 nell’oratorio di Santa Lucia, nella chiesa parrocchiale di San Matteo, davanti al sacerdote Domenico Ramaschiello, emise i voti privati di obbedienza, povertà e castità, oltre che di non perdere mai tempo a oziare. Divenne così una monaca di casa e si distinse per l’attenzione che rivolgeva a tutti coloro che la circondavano, la famiglia, gli amici, le domestiche che aiutava nel disbrigo delle faccende, ma soprattutto i poveri, che nutriva e curava.
Visse una vita molto modesta e vestiva poveramente, nonostante la ricchezza della sua famiglia. Indossava infatti, vestito e giacchettino di colore nero, con sulle spalle una scolla bianca che finiva incrociata sul petto e il capo sempre velato. Aveva appena 17 anni quando, nel 1852 morì un suo fratello a causa del tifo e contemporaneamente si manifestò in forma molto grave la córea, la malattia dettta ballo di San Vito, a causa della quale aveva convulsioni e movimenti parossistici degli arti che la facevano soffrire tantissimo ma di cui non si lamentava mai, anzi sembrava contenta di offrire la sua sofferenza a Dio.
La profezia della morte
Si iscrisse al Terz’Ordine Francescano il 28 febbraio1855 e frequentò assiduamente la chiesa di Santa Maria degli Angeli, officiata dai Frati Minori. Nel 1863 morì anche l’amato padre che lei aveva accudito con amore e dedizione e il dolore per la sua perdita fu accentuato dalla malattia di cui soffriva e che non le dava pace. Solo nel giugno del 1864 la malattia sembrò calmarsi ma lei stessa confidò alle amiche che le erano stati concessi solo altri sei mesi di vita e poi le sue sofferenze sarebbero finite. E così fu: morì infatti il 13 dicembre del 1864 a soli 29 anni. La Chiesa le ha assegnato il titolo di Serva di Dio per la santità della sua vita ed è stato avviato il processo di beatificazione.