All’inizio il liceo era al Vescovado, fu poi trasferito nel centro di Nocera Inferiore, la sua storia legata al pensiero di Giambattista Vico
di Marisa Croce
Nel 1865 Nocera era formata da vari borghi. Purtroppo la povertà culturale era dominante ma, nello stesso tempo, c’era il desiderio di creare una classe dirigente colta e preparata. Al Borgo Vescovado, in quello che era il seminario diocesano, nacque il nucleo del liceo classico, uno dei primi in tutto il Sud dell’Italia.
Gli inizi furono un po’ travagliati perché era un ginnasio – convitto e gli studenti dovevano poi spostarsi a Napoli o a Salerno per affrontare gli esami che solo dopo più di 20 anni poterono essere sostenuti in sede. Bisogna però aspettare il 1895 per l’istituzione della prima classe del liceo, fortemente voluta dal sindaco Aurelio Bosco Lucarelli che voleva trattenere gli studenti, sempre più numerosi. La seconda tappa è datata 1897, essa segna l’istituzione delle prime tre classi e la commissione per gli esami di maturità in sede.
Solo nel 1933, in piena epoca fascista, si decise di dare una sede specifica al liceo, in una posizione più centrale di quella al Borgo Vescovado. Il nuovo istituto fu inaugurato nel 1938, fu intitolato al filosofo Giambattista Vico, dagli studenti “affettuosamente” chiamato GiBi, di cui possiamo vedere la copia del busto scolpito da Francesco Jerace in piazza Cianciullo.
Ma chi era questo filosofo, sommariamente conosciuto come “quello dei corsi e ricorsi storici?” Nacque a Napoli nel 1668 e si laureò, forse a Salerno, tra il 1693 e il 1694. Ad appena 18 anni andò a Vatolla, nel Cilento, come precettore dei figli del marchese Domenico Rocca e proprio qui, avendo trovato una biblioteca fornitissima, consolidò la sua preparazione filosofica, aprendosi alle nuove correnti ma in modo critico e polemico. Dopo nove anni rientrò a Napoli e nel 1699 vinse la cattedra di retorica all’Università Federico II.
Siccome lo stipendio non era granché, per poter mantenere sia la famiglia natale che la sua (moglie ed 8 figli) aprì uno studio privato dove dare lezioni di retorica e di grammatica elementare. Dovette anche impegnarsi a lavorare su commissione alla stesura di poesie, epigrafi, orazioni funebri e panegirici. Vico era un enciclopedico conoscitore di molte materie ma si distinse soprattutto nella filosofia. Sosteneva che l’uomo può conoscere a fondo solo le cose di cui è in grado di ricostruire la genesi, la formazione e la produzione. Secondo Vico, la storia è una successione di momenti che riproducono le tappe dello sviluppo stesso dell’uomo e rappresenta, quindi, la scienza delle cose da lui fatte.
Si parte perciò dall’età in cui gli uomini sono “bestie”, si prosegue con quella in cui scoprono la divinità, le leggi morali e i legami sociali. Tramite questa civilizzazione si arriva all’età della ragione, guidata sempre dalla Provvidenza. Assisteremo quindi, prima alla nascita del linguaggio, della fantasia, della poesia e avremo poeti ed eroi, poi avremo letà degli uomini, nella quale prima tutti si riconoscono uguali nella natura umana ma poi cadono nella negazione di Dio, ritornando alla barbarie da cui ricomincia un nuovo corso della Storia. Non è dunque questa che si ripete, ma è l’uomo che è sempre uguale a sé stesso anche se nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti.
Giambattista Vico morì a Napoli nel 1744, forse per un tumore alla gola, dopo aver trascorso gli ultimi anni soffrendo probabilmente di Alzheimer. Curiosamente anche i suoi funerali si attennero ai corsi e ricorsi. Infatti, per la celebrazione delle esequie, ci fu un contrasto tra i confratelli della Congregazione di Santa Sofia, a cui era iscritto, e i professori colleghi dell’università, su chi dovesse tenere i fiocchi neri della coperta mortuaria per cui, non riuscendo a mettersi d’accordo, lasciarono la bara nel cortile e se ne andarono. I familiari dovettero riportarla a casa e solo il giorno dopo ci fu il suo funerale e la sepoltura nella chiesa dei Girolamini, dove è ancora visibile la sua tomba.